“Quando ho scoperto di essere incinta ho provato ansia e terrore di portare avanti la gravidanza, ho avuto paura della reazione di mio marito, lui non era assolutamente d’accordo su questa gravidanza, mentre io desideravo molto un altro figlio”. Un’insegnante del nord Italia esce allo scoperto e racconta come, a due anni di distanza da un’interruzione di gravidanza (Ivg), ha avuto bisogno di un percorso psicologico e del sostegno dell’Associazione Papa Giovanni XXIII per ritrovare la serenità e riconciliarsi con se stessa per il grave errore commesso. Niente a che fare col concetto di libertà femminile. Nel suo racconto infatti emerge con chiarezza l’istigazione del marito e delle colleghe di lavoro ad eliminare a poche settimane dal concepimento la creatura che le stava crescendo nel grembo. “Il giorno dell’aborto è stato il giorno più brutto della mia vita. Nel momento in cui ho preso le pastiglie per l’intervento, mi sono sentita crollare il mondo addosso, ho detto: ‘Io ti ho concepito, ma in questo momento io ti uccido. Sto decidendo la morte per te e questo non è giusto'”.
Ogni singolo giorno il ricordo di quel momento resta indelebile nel suo cuore: quella solitudine vissuta in ospedale, l’assenza di un’altra strada da percorrere e di un confronto profondo con i medici, i sentimenti di ostilità in casa, la separazione improvvisa da quella “parte di sé”. Tutto ciò fa capire che è necessario un sostegno dopo l’aborto. In base ai dati nazionali dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, sono tantissime le donne che non vorrebbero abortire ma sono costrette perché spinte dal partner o dai familiari. Se tutte potessero parlare della propria esperienza, come Giulia, ne emergerebbe un quadro di violenze, maltrattamenti e silenzi indotti anche in famiglie insospettabili. Per questo, quasi come un grido che raccoglie la voce di tante altre donne, ha raccomandato attraverso la sua testimonianza di vita: “A una donna che sta valutando cosa fare dico di non abortire. Se questo bambino è così piccolo ed indifeso, non possiamo decidere noi della sua vita. Ha diritto di vivere. La donna invece non ha diritto di scelta. Uccidere un bambino è uccidere una parte di sé”.
Ecco che diventa necessario riconoscere uno stipendio alle mamme, perché è un lavoro vero e proprio gestare e crescere un figlio nelle prime fasi della sua esistenza, dal concepimento fino ai 3 anni di vita.
Sono numerose le storie che mettono in evidenza la necessità di una politica che non vada nella direzione dell’istigazione all’aborto. Andrea Mazzi, Referente modenese del Servizio per la Maternità difficile, ha raccolto alcune di queste storie in un libro, edito da Sempre Comunicazione, che uscirà a metà novembre. “Per me era importante, dopo tanti anni di incontri con donne incinte in difficoltà, raccontare quello che ho visto – ha detto a In Terris – In questo ambito infatti ancora oggi tanti dicono che le gestanti hanno a disposizione tutti gli aiuti necessari per continuare la gravidanza. Io invece ho incontrato un mondo di donne vessate, umiliate e ricattate, di aiuti solo sulla carta, di profonde solitudini, di un mare di indifferenza. E soprattutto di libertà negata, perché normalmente c’è qualcuno o qualcosa che decide al posto della donna. E ho pensato di intitolare questo libro ‘Indesiderate’ perché mi sono reso conto che quando capita una gravidanza imprevista la nostra società emargina le neomamme e le spinge a disfarsi del bambino, anche se loro tante volte desidererebbero comunque accogliere il loro figlio: compagni che non vogliono prendersi le loro responsabilità, mamme che ritengono inadeguate le proprie figlie, datori di lavoro che le lasciano a casa, in generale una società che ritiene un peso qualunque gravidanza non pianificata, e che a ragione si può definire ‘abortista’ perché nei fatti indirizza pesantemente verso l’aborto”. Tanti volti, tante vicende che gridano con la stessa voce di Giulia: “Non istigateci ad abortire!”
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